Avevano lavorato spesso insieme. Mandy era magrissima, con i capelli grigio acciaio raccolti in uno chignon e un viso che sembrava avere la meglio sul trascorrere degli anni. Era veloce ed efficiente, catturava sempre l'intera scena del crimine. Non si limitava al cadavere, era attenta a tutto ciò che lo circondava.

«Grazie Jake, ancora un secondo e mi tolgo di mezzo.»

«Fai pure con calma. In questo caso non abbiamo nessuna fretta.»

«Penso di aver già fatto tutto quello che potevo e quello che mi ha chiesto il dottor Gannet.» Si chinò per mettere a fuoco un'ultima inquadratura. «Vado a parlare con Pentillo, aspetto che il medico legale faccia spostare il cadavere per scattare le ultime foto.»

«Grazie, Mandy.»

Lei annuì. «Penso che il dottor Gannet sappia che sei qui. Comunque te lo mando subito.»

Jake si accucciò per studiare la posizione del corpo.

Non aveva bisogno del medico legale per capire che la donna era morta da diverso tempo. Era rimasta esposta agli agenti atmosferici e agli animali che vivevano da quelle parti. In alcuni punti non restavano che le ossa, in altri solo qualche brandello di carne, a malapena attaccata al corpo. Sembrava che non avesse abiti addosso. Con la penna, Jake spostò alcune foglie marce e vide che sia le mani sia il viso erano in avanzato stato di decomposizione.

Un altro omicidio nella contea. Niente di strano. Metti milioni di persone insieme e prima o poi finiscono con l'ammazzarsi tra loro.

Ma Jake sapeva bene perché Marty era stato così teso al telefono, perché gli aveva chiesto di raggiungerlo il più in fretta possibile.

Il viso aveva ben poco di umano ormai, però non aveva subito la stessa devastazione delle mani.

Ed era chiaro che le orecchie erano state tagliate.

Jake fu percorso da un brivido. Sentì un sapore amaro in bocca.

Déjà vu.

Peter Bordon, conosciuto anche come Papa Pierre, era in carcere da parecchio tempo. Cinque anni. Ma guardare quel corpo, anche solo per un attimo, risvegliava il ricordo di tutte le vittime del periodo in cui Bordon era stato il capo carismatico di una setta molto particolare.

«Sì, è ancora in prigione» disse Marty, quasi avesse letto nei pensieri del collega.

«Sei sicuro?»

«Ho telefonato per controllare non appena ho visto il cadavere, subito dopo averti chiamato» rispose Marty. «È in prigione. Forse è irrilevante, ma è ancora dietro le sbarre.»

«Scusa» mormorò Jake.

Era inevitabile. Solo pensare a quell'uomo lo metteva in tensione. Peter Bordon aveva raccolto attorno a sé un gruppo abbastanza numeroso di persone e si comportava come un profeta del mondo moderno. Predicava l'importanza della comunità, la necessità di lavorare per salvare il genere umano, di abbandonare una vita fatta di lusso e di peccato. Così i suoi seguaci avevano versato tutti i loro risparmi sul conto corrente di Bordon.

Tre donne, tre sue seguaci, erano morte. Ritrovate in fossi e canali.

Con le orecchie mozzate.

Le armi del delitto non erano mai state trovate. E neppure un indizio.

Bordon era l'unico sospettato, ma non avevano niente per provare la sua colpevolezza. La polizia era riuscita a ottenere un mandato e aveva indagato sul suo patrimonio. Non aveva scoperto nulla se non attività finanziarie illecite. Ed era per queste che era finito in prigione.

Una sera, a notte fonda, un vagabondo si era presentato a una piccola stazione di polizia e aveva confessato di essere l'assassino.

Ma mentre gli agenti avvertivano la squadra omicidi, il giovane si era impiccato in cella con la propria cintura.

Così il caso era chiuso. In teoria.

Ma Jake e molti dei suoi non potevano credere che un pazzo da solo fosse riuscito a portare a termine una sequenza di omicidi tanto ben organizzati. Ufficialmente il caso non era mai stato chiuso, ma con la confessione e la morte del giovane, con Bordon in prigione e visto che non erano più stati ritrovati cadaveri, Jake e i suoi avevano dovuto dedicarsi ad altre indagini.

Jake però non era soddisfatto. Per lui il caso era ancora aperto.

Non erano riusciti a incriminare Bordon per omicidio.

Bordon era colpevole. Ne era sicuro. Ma non c'erano prove. Non che Jake ritenesse Bordon materialmente colpevole degli omicidi. Lui era la mente.

Adesso era in prigione, ma non c'era niente al mondo che gli impedisse di organizzare gli assassini dalla propria cella.

Bordon aveva un potere enorme, molto più pericoloso di qualunque arma. Aveva l'abilità di manipolare uomini e donne. Di entrare nelle loro menti.

Non aveva bisogno di sporcarsi le mani di sangue.

Cinque anni prima, la polizia aveva ispezionato tutte le carte e i documenti di Bordon, alla ricerca disperata di un collegamento. Alla fine però non avevano trovato nulla, nessuna prova che fosse lui il mandante. Come era accaduto molto tempo prima per Al Capone, erano riusciti a incastrarlo per frode ed evasione fiscale.

Magra soddisfazione, ma se non altro era finito dietro le sbarre.

Poi il ragazzo aveva confessato e si era suicidato, e gli omicidi erano terminati.

O almeno così credevano, fino a quel giorno.

Adesso erano davanti a un cadavere che ricordava in modo impressionante quelli ritrovati in passato.

«Non mi piace la tua faccia, Jake» disse calmo Marty. «Forse non dovresti occuparti di questo caso.»

Jake lo fissò. «Va tutto bene, tutto a posto. Scusa.»

«Signori, posso unirmi a voi? Vi aggiorno su quello che ho trovato.»

Jake si voltò. Il dottor Tristan Gannet si avvicinò a loro. Era contento che fosse lui il medico legale. Aveva vent'anni di esperienza e aveva seguito anche gli omicidi precedenti.

«Sono felice di vederti, Gannet» mormorò Jake.

Guardò ancora una volta con attenzione tutta la scena prima di avvicinarsi al cadavere insieme a Gannet. Non vi erano tracce di stoffa o di indumenti. Nessuna impronta, ma se il corpo era stato trasportato fin lì dalla pioggia, non potevano essercene. Nessun segno evidente della causa della morte, forse perché il cadavere era in un avanzato stato di decomposizione. La vittima doveva essere una giovane donna ed era rimasta qualche ciocca di capelli scuri. Il primo poliziotto arrivato sul posto aveva fatto un ottimo lavoro. Aveva subito isolato la scena del delitto e in questo modo aveva evitato che le poche prove disponibili fossero inquinate.

Forse avrebbero trovato un capello, una fibra, qualsiasi cosa, anche minuscola. O forse la scientifica sarebbe riuscita a ricavare qualche indizio invisibile a occhio nudo. Jake però nutriva poche speranze. Sarebbe stato un lavoro difficile.

Impossibile trovare qualcosa sotto le unghie. Le unghie non c'erano più. Quindi non potevano neanche risalire all'identità del cadavere grazie alle impronte digitali. Tutte le dita, pollici compresi, erano prive di pelle.

«E nessuno la riconoscerà mai dal viso» mormorò tra sé.

«Il modo migliore comunque sono sempre i denti» osservò Gannet. «E in questo siamo fortunati. Sono pronto a scommettere che la pelle è stata asportata dalle dita prima che gli animali e il tempo facessero il resto.» Guardò Jake per un momento. Sapeva che stavano pensando la stessa cosa.

Negli omicidi passati le orecchie erano state mozzate e la pelle tagliata via dalle dita. Ma perché preoccuparsi di eliminare le impronte digitali e poi lasciare la testa e i denti, in modo da rendere possibile l'identificazione?

Erano di nuovo al punto di partenza?

O si trattava di un imitatore?

«Potrebbe trattarsi di un imitatore» disse Gannet, come se Jake avesse espresso i suoi pensieri a voce alta.

«Già.»

Gannet fissò i resti con espressione triste. Erano emozioni sincere, benché il medico le tenesse sotto controllo. Quella era un'altra cosa che a Jake piaceva di Gannet. Sapeva fare bene il suo lavoro. E sebbene non prendesse i casi tanto a cuore da non dormirci la notte, mai, in tutti quegli anni di lavoro, aveva perso la compassione per le vittime, qualunque fosse la causa della morte.

«Scopriremo chi è» assicurò Gannett a Jake.

«Ho bisogno di sapere quello che scoprirai il più presto possibile.»

Gannet annuì. «Naturalmente» borbottò, con una vena di sarcasmo nella voce. Purtroppo i cadaveri erano all'ordine del giorno nella contea, soprattutto quelli che capitavano nei momenti meno opportuni. Guardò di nuovo Jake. «Non preoccuparti. Mi metto subito al lavoro. Questo caso ha la precedenza su tutto.»

Continuò a fissarlo. Forse si conoscevano fin troppo bene, pensò Jake.

Durante le indagini sugli altri omicidi simili a quello, Jake aveva avuto un atteggiamento piuttosto aggressivo nel difendere le vittime. Anche dopo che il presunto responsabile si era suicidato. E anche dopo che Bordon era finito in carcere.

Le vittime.

Sospettava che Bordon fosse coinvolto anche nella morte di un'altra persona.

Una persona che gli era molto più vicina.

Nancy.

Non erano in molti al comando a essere d'accordo con lui. Pensavano che avesse solo bisogno di trovare un responsabile per la morte della collega. Che non poteva accettare che si trattasse di un incidente. O di suicidio.

L'ipotesi del suicidio era assurda. Chiunque avesse conosciuto bene Nancy non poteva pensare neppure lontanamente a quella possibilità.

«Te la senti di assumere le indagini di questo caso?» chiese Gannet in tono comprensivo.

«Certo. Sono un professionista, Gannet. E nessuno conosce meglio di me i casi precedenti.»

«Hai ragione.» Gannet indossò i guanti e iniziò l'esame dei resti.

«Qualche idea sulla causa della morte?» chiese Jake impaziente, dopo qualche minuto.

«Non naturale» rispose il dottore.

«Non sono laureato in medicina, ma fin lì ci ero arrivato anch'io.»

Gannet abbozzò una smorfia divertita. «Un coltello, piuttosto grande. Forse un machete.»

Jake lo guardò sorpreso. «Ma non c'è abbastanza carne...»

«Se avessi seguito qualche corso di medicina legale, lo avresti capito anche tu.»

«Difatti ho seguito quei corsi» gli ricordò Jake in modo brusco.

«Sarà. Comunque le condizioni del cadavere possono trarre in inganno. Sposta un po' le foglie e il marciume e scopri le ossa. Sì, lo so, sono coperte di sporcizia. Ma vedi? Se guardi con attenzione, vedi la scalfittura? Devo fare l'autopsia completa, però potrei giurare che si tratta di una lama molto grande. Solo con una lama del genere si possono eseguire mutilazioni come quelle alle orecchie e al resto. Certo, anche gli animali hanno fatto la loro parte, ma questi non sono segni di denti. Non c'è dubbio, arma da taglio. E poi c'è la pelle tolta dalle dita. È stata tagliata, non strappata a morsi.»

«È molto più di una semplice somiglianza. Si potrebbe dire senza ombra di dubbio che sia lo stesso...» iniziò Jake.

«Da quanto ho visto finora, sì, ma non abbiamo ancora la certezza assoluta. Prima devo portarla all'obitorio. Potrebbe sempre trattarsi di un imitatore. Lo sai anche tu, quella gente studia i casi di omicidio fino all'ultimo dettaglio per poi replicarli alla perfezione. A volte pensiamo che si tratti di un serial killer quando invece gli assassini sono persone completamente diverse.»

Jake lo guardò dubbioso.

«È buffo» seguitò Gannet con un sorriso, «ogni anno che passa, tu impari qualcosa in più sulle autopsie e io imparo qualcosa in più sul lavoro del poliziotto.» Con gli occhi fissi alla vittima, rimase qualche secondo in silenzio. Quando parlò il tono era serio. «Mi metto subito al lavoro. Ci vediamo all'obitorio. Ah, ho sentito che stai per spostare la barca.»

«L'ho già fatto. Ieri.»

Gannet lo studiò con attenzione. «Ne sono contento, fa bene cambiare.»

«È sempre la stessa vecchia barca» rispose Jake asciutto.

«Ma in un nuovo porticciolo. Ti svegli e vedi qualcosa di diverso.»

«Già.»

Jake non aggiunse altro. Aveva l'impressione che Gannet, come molti altri, credesse che fra lui e Nancy ci fosse stato qualcosa più di un rapporto di lavoro. Forse avrebbe dovuto dire qualche parola in sua difesa, rifletté, anche se non era stato accusato di nulla.

Non aveva bisogno di scusarsi o di difendersi da nessuno. L'inchiesta aveva provato la sua estraneità, almeno per quanto riguardava quella notte. L'opinione generale era che Nancy, disperata per il matrimonio che si sgretolava e sotto pressione per il lavoro, avesse fatto pazzie per una notte. Che avesse incontrato qualcuno, bevuto qualche bicchiere di troppo, preso delle pillole. E fosse finita nel canale. Ma Jake e Brian avevano solo una cosa in comune: entrambi la conoscevano bene. L'anno dopo la morte di Nancy era stato tremendo per Jake. Nonostante la setta fosse ormai sciolta, Jake si era ostinato a voler trovare un collegamento fra Bordon e la scomparsa della collega. Era arrivato molto vicino a oltrepassare il confine fra indagine e accanimento, ed era stato richiamato per questo. Alla fine aveva capito che doveva tirarsi indietro. Così era tornato a essere un poliziotto razionale ed efficiente, che si atteneva scrupolosamente alle regole. Almeno all'apparenza.

Ma non aveva cambiato idea. Era ancora determinato a scoprire la verità.

«Mi piacerebbe vivere sul mare» mormorò Gannet. «Chissà, forse un giorno.»

«Dovresti venire qualche domenica. Ho anche un gommone. Potremmo andare a pescare.»

«Sì. Mi piacerebbe.» Gannet sorrise. «Forse mia moglie mi lascerà venire.»

«Porta anche lei.»

«Dottor Gannet, detective Dilessio?»

Jake si voltò. Era Mandy Nightingale. Li aveva raggiunti insieme a Marty. «Posso far spostare il corpo, così finisco di fotografare il resto della scena?»

«Io ho terminato» rispose Gannet.

«Jake?»

Lui annuì. «Se Gannet ha finito, per me va bene.»

«Ottimo. Jake» aggiunse Mandy, in un tono di voce più basso, «ci sono parecchi giornalisti laggiù, iniziano a essere impazienti.»

«Vuoi che ci parli io?» chiese Marty.

Jake scosse la testa. «No, ci penso io. Manda un paio di uomini a interrogare la gente che vive qui. Non ci sono molte case, ma qualcuno potrebbe aver visto qualcosa. Io intanto mi occupo della stampa.»

«Sei sicuro?»

«Marty, sto bene. Sono passati cinque anni. Sono un poliziotto e questo è il mio lavoro. E poi tu servi qui. Non possiamo permetterci il lusso di lasciarci scappare qualche indizio.»

Marty annuì. Jake si allontanò dalla scena e attraversò la strada, dove alcuni agenti cercavano di contenere l'assalto dei giornalisti.

«Si tratta di omicidio, giusto? Una donna giovane?» chiese Jayne Gray, di un'emittente locale.

«Purtroppo al momento non posso dirvi molto. Abbiamo il corpo di una donna che, a quanto sembra, è morta da diverse settimane, forse mesi. Dobbiamo ancora accertare i fatti e aspettare i risultati dell'autopsia. A quel punto un portavoce della polizia vi riferirà tutte le informazioni non riservate. Per ora non ho altro da aggiungere.»

«Ma, detective Dilessio, non può dirci nient'altro?» A parlare era Bryan Jay, sgradevole cronista della stampa locale. «Si tratta di omicidio, vero? Avete trovato la vittima di un omicidio nel fango, lungo la strada.»

Fu tentato di dargli una risposta cretina: "Oh, no. E lei che ha deciso di lasciarsi cadere lì, sdraiarsi e morire".

«Signor Jay, la prego di lasciare al medico legale il tempo per fare il suo lavoro» disse Jake con durezza.

«Su, Jake, ci dica qualcosa in più» ribatté Jay con insistenza. «Pensate che sia un omicidio isolato o che si tratti di un serial killer? La prima vittima di quel serial killer di alcuni anni fa era stata trovata nelle stesse condizioni, giusto? Ci sono mutilazioni?»

Che Jay si tenesse pure i suoi dubbi e i suoi sospetti, pensò Jake.

«Purtroppo, questa è una grande città. Abbiamo molti omicidi ogni anno.»

«Però resta il fatto che ci sono parecchie cose in comune. Anche se il ragazzo che aveva confessato di aver commesso i crimini è morto, o sbaglio?»

«Un uomo che si è dichiarato colpevole degli omicidi si è suicidato, sì.»

«Ma è vero che il caso non è mai stato ufficialmente chiuso?»

«No, non è mai stato chiuso.»

«La polizia ha smantellato quella setta religiosa e Papa Pierre, alias Peter Bordon, era uno dei sospetti, giusto? Ma sono anni che è chiuso in carcere, conferma?»

Jake sentì che gli saliva il sangue alla testa. Strinse i denti e cercò di resistere alla tentazione di tirare un pugno sulla faccia grassoccia e soddisfatta di Bryan Jay.

«Dai, Jake» urlò un'altra donna.

Conosceva anche lei. Cronista di nera per un giornale di Broward. Aveva fatto in fretta ad arrivare, pensò.

«Peter Bordon si trova in una prigione al centro dello Stato. Come ogni cronista di nera sa bene, non è mai stato incriminato per omicidio» rispose.

«E neppure quel pazzo che si è suicidato in prigione. Harry Tennant. Era solo un drogato senzatetto. Certo, ha confessato, ma ce ne sono in giro di psicopatici che amano prendersi la colpa di delitti sensazionali» intervenne Jay.

«Il signor Tennant è morto, non sappiamo molto sul suo passato.»

«Però, a quanto sembra, non era un assassino. Voi avete smesso di indagare e adesso l'omicida è là fuori e ha ricominciato a uccidere» insistette Jay.

«Signor Jay, mi dispiace, ma noi cerchiamo di attenerci ai fatti. Nessuna supposizione. Non posso dirvi altro, per il momento» ribadì Jake risoluto. Si sforzò di tenere basso il tono della voce. «A voi giornalisti servono i fatti, proprio come a noi. Non appena avremo qualcosa da comunicarvi, lo faremo. Per il momento è tutto, grazie. Noi rispettiamo il vostro lavoro, e vi siamo molto grati quando voi rispettate il nostro.»

Si voltò e se ne andò.

Innanzitutto voleva fare una lunga chiacchierata con la donna che aveva trovato il cadavere, prima che quelli della stampa le fossero addosso. Poi doveva solo muoversi come se si trattasse di un caso qualsiasi. Soffocare i ricordi e l'amarezza del passato.

Gli esperti della scientifica avrebbero esaminato i campioni del suolo e ogni minimo indizio trovato dagli investigatori. Gannet avrebbe eseguito l'autopsia. C'erano gli uomini migliori su quel caso. Doveva solo aspettare i rapporti, così avrebbe avuto qualche elemento in più su cui lavorare.

Attenersi ai fatti.

Una donna era stata uccisa. In modo brutale.

Era morta da molte settimane, forse anche da parecchi mesi.

Aveva subito la mutilazione delle orecchie, come se l'uccisione facesse parte di un rituale.

Doveva stare attento, lo sapeva. Se partiva con la convinzione che quella morte fosse legata agli omicidi avvenuti in passato, rischiava di trascurare altre possibilità e di non vedere qualche aspetto importante.

«Un imitatore» gli urlò dietro Bryan Jay. «Potrebbe trattarsi di un imitatore?»

Jake si rifiutò di rispondere.

Mentre ritornava sulla scena del crimine, vide Marty, il dottor Gannet e Mandy Nightingale che parlottavano fra loro.

Marty guardò dalla sua parte e Jake capì. Parlavano di lui. Erano preoccupati per lui.

Non ce n'era bisogno.

Stava bene.

E questa volta aveva tutte le intenzioni di catturare il vero assassino.

 

4

 

Lunedì mattina, Ashley per prima cosa frugò fra la pila di quotidiani che Nick aveva messo accanto alla porta sul retro, per la raccolta differenziata.

«Cosa stai facendo?»

Sobbalzò per la sorpresa quando sentì la voce alle sue spalle. Era suo zio. Doveva aver fatto troppo rumore e l'aveva tirato giù dal letto. Guardò il mucchio di giornali, ormai sparsi a terra in disordine. Aveva cercato nella cronaca locale di sabato, sicura che riportasse la notizia dell'incidente. Ma non era riuscita a trovarla.

Sorrise a Nick. «Mi dispiace di averti svegliato. Abbiamo visto un incidente mentre andavamo a Orlando. Volevo scoprire cos'era successo. Ne sai qualcosa?»

Nick si grattò il mento, ispido per la barba di qualche giorno. Aveva cinquantadue anni ed era ancora un uomo attraente, il cui viso espressivo lasciava intuire una forte personalità. Non che non dimostrasse la sua età, a questo avevano pensato il sole e il vento. Ma era decisamente in forma e il tempo non aveva fatto altro che donargli un fascino che lasciava immaginare una vita intrigante e vissuta con intensità. Tra i capelli biondi vi erano alcuni fili grigi e i gelidi occhi azzurri sembravano custodire una saggezza antica.

Saggezza o non saggezza, in quel momento Nick si limitò a stringersi nelle spalle, scuotere la testa e sbadigliare. Annodò l'accappatoio che indossava sopra i calzoni del pigiama e si diresse alla macchina del caffè. Era vuota. La guardò stupito. Ashley preparava sempre il caffè.

«Scusami tanto, zio, ma quell'incidente mi ha proprio sconvolta.» Lo raggiunse e cominciò a darsi da fare.

«No, lascia stare, non preoccuparti. Sono ancora capace di fare un caffè» rispose lui a quel punto, un poco risentito.

Nick era fatto così. Era un uomo indipendente. Sapeva badare a se stesso e non sopportava le persone che non riuscivano ad arrangiarsi da sole.

«Davvero non sai ancora nulla dell'incidente?» chiese Ashley.

«Siamo a Miami. Ci sono incidenti in continuazione. Anzi, credo che le autorità si preoccupino quando passa un giorno senza un maxi tamponamento in autostrada.»

«Sai dov'è la pagina della cronaca locale di sabato? Dovrebbe esserci almeno un trafiletto. È morto un uomo. Almeno credo che fosse morto.»

«Sì, è in camera mia. Te lo prendo.»

«Vado io.»

«Sharon è sotto la doccia» borbottò Nick.

«Ah. Bevi il caffè, posso aspettare. È solo che non ho smesso di pensarci per tutto il fine settimana.»

«Non ti sei divertita?»

«Certo che mi sono divertita.»

«Con il pensiero di un uomo morto sull'autostrada fisso in mente?» Nick la guardò dubbioso. «Ti preparo del pane tostato?»

«No grazie, non ho fame.»

«Sarai all'accademia tutto il giorno. Dovresti mangiare qualcosa.»

«Ho mangiato una schifezza terribile a un autogrill ieri sera» borbottò. «Mi durerà fino all'ora di pranzo.»

«Quale schifezza?»

«Lo spacciavano per un hamburger.»

«Siete tornate tardi. Che ore erano? Io sono andato a dormire che era l'una passata.»

«Le tre» ammise Ashley.

«Devi aver dormito parecchio» osservò sarcastico. «E hai davanti una giornataccia.»

«Non lo sono tutte?» scherzò Ashley. «Sono giovane, posso sopravvivere anche con qualche ora di sonno in meno.»

Nick la guardò perplesso. Poi tornò alla macchina del caffè e se ne riempì una tazza.

«Te ne verso un po'. Sarai anche giovane, e immagino che volessi alludere al fatto che io non lo sono più, ma ti assicuro che hai la faccia di chi ha un gran bisogno di caffè. Avete dormito almeno qualche ora durante la vacanza?»

Ashley scoppiò a ridere. «Non mi sognerei mai di darti del vecchio. Sei in splendida forma. Sì che abbiamo dormito. Poco, ma abbiamo dormito. La sera facevamo un po' tardi. Comunque mi sento benissimo, anche se dai tuoi commenti mi pare di capire che non ho un bell'aspetto.»

Nick sorseggiò il caffè, appoggiato su un gomito. «Quasi tutti i poliziotti in gamba che conosco non hanno un bell'aspetto. È quell'espressione sofferente. Dev'essere colpa di questo distretto.»

«Questo significa che pensi che diventerò un poliziotto in gamba?»

«Non ho dubbi. Vado a prenderti il giornale. I quasi-poliziotti in gamba non arrivano a lezione in ritardo. Fila sotto la doccia e vai a vestirti. Ti cerco la cronaca di sabato.»

Ashley annuì, finì il caffè e andò in camera sua.

Il locale che portava il nome di Nick era quasi un'istituzione da quelle parti. Per uno degli strani giochi del destino, lo zio aveva comprato il posto da un tizio che si chiamava Nicholas, un vecchio marinaio che era diventato proprietario della casa e del ristorante negli anni Venti, quando Miami era ancora una piccola città. Da allora molte cose erano cambiate e il valore della terra era notevolmente aumentato. Ma il locale era rimasto identico. Era in legno di pino, adesso raro e pregiato. Un pontile univa il ristorante al porticciolo, dove erano ormeggiate parecchie barche, alcune usate solo nel tempo libero, altre come abitazione. La zona bar e ristorante si affacciava sul mare. La cucina privata e l'ampio soggiorno potevano essere raggiunti sia dalla cucina del ristorante, sia dall'ufficio situato dietro al bancone del bar. La camera da letto di Nick era sopra il soggiorno. Ashley invece occupava l'ala al piano terra, che aveva anche un ingresso privato sulla destra del ristorante.

Era un locale rustico, dall'atmosfera piacevole e marinaresca. Sopra una porta erano appesi i denti di un enorme squalo bianco e di fianco, in un piccolo armadietto, era conservata la campana dei turni di guardia di un'imbarcazione ottocentesca. Alle pareti vi erano diverse fotografie. Alcune erano del padre di Ashley con lo zio, da piccoli, altre di lei bambina insieme ai genitori. La sua preferita era quella scattata il giorno di una gara di pesca per bambini, quando aveva pescato il pesce più grosso e sorrideva felice in mezzo alla mamma e al papà.

Una casa così vecchia aveva anche i suoi problemi. L'acqua calda, per esempio. Ashley si ricordò che Nick aveva detto che Sharon si stava facendo la doccia nell'istante esatto in cui entrò sotto l'acqua tiepida. Non aveva importanza, avrebbe risparmiato tempo.

Quindici minuti dopo era pronta ed entrò di corsa in cucina. Nick era già lì. Aveva fatto la doccia anche lui, probabilmente gelata, e indossava un paio di calzoncini e una polo. Leggeva il giornale con espressione preoccupata. Sharon era in piedi accanto a lui, e anche lei guardava la pagina con aria triste.

Sharon era una donna attraente, non molto alta, magra, capelli biondo platino e occhi azzurri, più giovane di Nick di qualche anno. Sembrava fin troppo elegante e raffinata per il bar del porto. Sapeva essere una tigre quando si trattava di concludere una vendita o della sua nuova passione, la politica. Ma con Ashley era sempre gentile e si preoccupava per lei. Era una donna che non passava inosservata, determinata più che aggressiva, intelligente e divertente. Amava l'avventura, per questo Nick stava tanto bene con lei.

«Siete riusciti a trovare l'articolo sull'incidente?» chiese Ashley.

Nick sollevò la testa. La guardò negli occhi e annuì, senza sorridere.

«Buongiorno, cara, ci dispiace così tanto» mormorò Sharon triste.

«Ti dispiace? Perché, cosa è successo?»

«Ci abbiamo messo un po' a trovare l'articolo. C'è stato un temporale sabato notte e ci sono stati altri due incidenti mortali. Ma c'è qualcosa nella cronaca locale. L'uomo che hai visto, Ashley» disse Nick, «è un tuo compagno di scuola. Non è morto. È in coma. Ha riportato gravi ferite interne e sembra che i dottori non siano molto ottimisti.»

«Cosa? Chi?» Li guardò preoccupata, poi si avvicinò al bancone.

«Stuart Fresia» borbottò Nick.

«Stuart?»

Ashley afferrò il giornale e lesse velocemente le parole dell'articolo. Non riusciva a capire.

Stuart.

Non era solo un compagno. Lei e Stuart erano amici, anche se negli ultimi anni non si erano frequentati molto. Ai tempi della scuola, lui era un ragazzino intelligente e simpatico, benvoluto dai compagni e dai professori. Diceva di voler studiare legge. Usciva volentieri, sapeva divertirsi senza bere troppo e non si era mai lasciato tentare dalla droga. A volte Ashley lo aveva invidiato. In mezzo a tutte le separazioni e i divorzi dei genitori degli altri amici, quando andava a casa di Stuart trovava due persone che ancora si amavano e che amavano il figlio più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Stuart. Sull'autostrada. In mutande. Non aveva senso.

Neppure l'articolo aveva senso. Non per Ashley.

Lo rilesse diverse volte. I testimoni oculari, compreso l'uomo che lo aveva investito e che non riusciva a darsi pace, avevano dichiarato che Stuart si era messo a correre per l'autostrada incurante del traffico. Era spuntato dal nulla, da qualche punto dell'altra carreggiata. La sua macchina non era nelle vicinanze. Non aveva documenti. Era lì, in mutande, in mezzo all'autostrada. Aveva riportato molte ferite, compreso un grave trauma cranico. Dopo ore di sala operatoria, adesso era in coma, tenuto in vita con l'aiuto delle macchine. I medici avevano fatto tutto il possibile, ma le speranze che sopravvivesse erano poche. Il chirurgo si era limitato a esprimere un cauto ottimismo data la giovane età e la voglia di vivere del ragazzo.

Quanto ai motivi per cui si era messo a correre in quel modo, la risposta sembrava essere l'eroina. Stuart si era drogato. Le analisi del sangue e delle urine erano risultate positive.

«No» sussurrò Ashley.

«Mi dispiace» mormorò Nick. Le posò affettuosamente le mani sulle spalle.

«No, no, ci deve essere un errore. Stuart fatto di eroina? Impossibile, non era un drogato.»

«Era da un po' che non lo vedevi, o sbaglio?»

Ashley posò il giornale e guardò Nick. «Sì, ma comunque non riesco a crederci.»

«Le persone cambiano, Ashley» aggiunse Sharon.

Lei scosse pensierosa la testa. «Quando c'era qualche grave incidente e venivano a scuola per chiedere di donare il sangue, Stuart si offriva sempre volontario. Ma non ci riusciva mai perché sveniva alla sola vista di un ago. Non può essere come hanno scritto.»

Nick la abbracciò e la tenne stretta. «Ashley, è successo. Hai visto il corpo. Hai letto l'articolo. Può darsi che Stuart fosse un ragazzo in gamba, molto in gamba. E forse lo è ancora, ma potrebbe aver incontrato le persone sbagliate. Però è vivo. C'è una speranza.»

«Hai ragione. Per il momento è ancora vivo. O almeno lo era sabato.» Fissò Nick terrorizzata. «Devo leggere i necrologi di domenica e di oggi. Hai il giornale di oggi?»

«Ho già controllato, non c'è niente» disse Sharon.

«Grazie.»

«Stammi a sentire, adesso devi andare a lezione. Chiamo l'ospedale, mi informo e ti lascio un messaggio sul cellulare. Lo sentirai nell'intervallo. D'accordo?» le propose Nick.

Ashley annuì. «Sì, grazie, a tutti e due.»

Quando aprì la porta della cucina per uscire si trovò davanti un uomo.

Stava diventando un'abitudine.

Sandy Reilly però non era uno sconosciuto. Erano quasi sette anni che frequentava il locale di Nick. A giudicare dalle rughe, si sarebbe detto che avesse novant'anni, ma non doveva averne più di una settantina, anche se nessuno gliel'aveva mai chiesto. Viveva in una delle imbarcazioni attraccate al molo. Ma passava molto più tempo nel bar di Nick.

«Ciao, Sandy.»

«Ciao, piccola. Sei splendida in divisa.»

«Grazie.»

«Poliziotti, poliziotti, poliziotti, ce ne sono dappertutto.»

«Davvero?»

Sandy scoppiò a ridere. «Non sai quanti poliziotti vengono qui?»

«Sì, qualcuno. Ma non mi sembrano così tanti. Questo è un locale pubblico, Sandy. Non chiediamo a chi entra che cosa fa per vivere.»

«Curtis Markham, il tizio con i capelli grigi, quello che si siede a bere nell'angolo con il figlio, un ragazzino di dodici anni. Gioca spesso a biliardo. Poliziotto, della South Miami. E poi c'è Tommy Thistle. Conosci Tommy, poliziotto anche lui, nella Miami Beach?»

«Sì. Conosco Tommy. E anche Curtis.»

«Poi c'è Jake.»

«Jake?»

«Se lo vedi, lo riconosci.»

«Sei sicuro?»

«Puoi dirlo forte. Ma non viene spesso. A volte, la domenica. Alto. Moro. Atletico. Lui è nella Miami-Dade. Omicidi. Un detective. Un pezzo grosso, dicono. Lo conoscerai. Adesso ha trasferito la barca qui al molo, quindi si farà vedere più spesso.»

Sandy continuò a parlare ma lei non ascoltava più. Jake. Alto. Moro. Nella omicidi. Della Miami-Dade.

Aveva capito subito, naturalmente. Era l'uomo che aveva scottato con il caffè, mentre usciva di casa di corsa.

Faceva parte della Miami-Dade. Fantastico. Proprio fantastico.

«Visto? Li conosco tutti, se vuoi te li presento.»

«Grazie» borbottò Ashley. «Penso di conoscere l'uomo di cui parli. Cioè, devo averlo visto qui. Jake. Si chiama così?»

«Jake Dilessio. Detective Dilessio. Un giorno te lo presento come si deve. Oppure potrebbe farlo Nick.»

«Non preoccuparti, non c'è bisogno.» Meglio lasciare le cose come stavano. Aveva già fatto abbastanza danni.

«Stai bene, Ashley?»

«Certo.»

«Hai un'aria strana. Ho detto qualcosa di sbagliato?»

Il vecchio Sandy. Probabilmente conosceva vita, morte e miracoli di tutti quelli che frequentavano il locale. «Sto bene, Sandy. Tutto a posto. Pensavo solo che è buffo che tu ne sappia più di me dei clienti che frequentano il locale. Io sono cresciuta qui e ci abito.»

«Certo, non ci sei mai. Io sono un pensionato, non mi resta molto altro da fare se non stare a guardare chi va e chi viene. Qui tutti non vedono l'ora che diventi poliziotto anche tu. Io non ho dubbi: sarai tra i dieciquattordici che ce la faranno.»

«Dieci-quattordici?» ripeté Ashley assente. Cercava ancora di accettare il fatto che aveva ustionato e trattato a pesci in faccia un detective della omicidi. Della stessa squadra in cui lei sperava di entrare.

«Ce la fa un terzo degli aspiranti. E dopo un anno diventano poliziotti. Lo dicono le statistiche.»

Ashley sorrise divertita. «E tu come fai a conoscerle?»

«Sarò anche vecchio, ma ci vedo e ci sento benissimo. E una cosa l'ho imparata nella vita: bisogna saper ascoltare. Io ascolto i poliziotti che vengono nel bar di Nick.»

«Ehi, Sandy» intervenne Nick. «Piantala con le chiacchiere. Ashley non diventerà mai un poliziotto se arriva sempre in ritardo. E poi, non siamo ancora aperti.»

«Lo so, lo so. Me lo dici tutte le mattine. Ma il caffè è sempre pronto, me ne versi sempre una tazza e io ti do sempre una mano a sistemare il locale prima che arrivino quei ragazzini svogliati che sostengono di lavorare qui.»

Ashley sorrise. Era vero. Il vecchio Sandy arrivava presto quasi tutte le mattine.

Ma mai prima delle sei e mezzo. E non dava fastidio a nessuno. Beveva il suo caffè, aiutava Nick a sistemare il locale e poi si sedeva nel portico a guardare il mare e le barche.

E così facevano anche molte altre persone che vivevano a bordo delle barche, detective della omicidi inclusi, a quanto pareva.

«Ashley, stai bene? Sembri pallida» osservò Nick.

«Sto bene, zio.» Lo guardò con aria di rimprovero. «Non mi avevi detto che quel tizio che è venuto l'altra mattina era un poliziotto. Della omicidi. E della Miami-Dade.»

«Sei scappata via. Non ne ho avuto il tempo.»

«Hai ragione.»

«È un uomo in gamba.»

«Immagino.»

«Sicura di sentirti bene?» insistette Nick preoccupato.

«Sto bene. Davvero. Giuro. Adesso devo andare. Ciao a tutti» disse Ashley. Sorrise a Sandy e si avviò alla macchina.

Una volta in autostrada il sorriso era svanito. Non si soffermò neppure a pensare al fatto che aveva ustionato con il caffè un superiore della Miami-Dade. Con un pizzico di fortuna poteva non incontrarlo, anche se la sede della omicidi si trovava nello stesso palazzo in cui lei seguiva il corso.

Pensò a Stuart invece, sempre più triste e incredula.

Non era un drogato. Non lo era e basta. E non poteva esserlo diventato. Aveva sempre avuto la testa ben salda sulle spalle. Amava i suoi genitori e voleva che fossero fieri di lui. Non che fosse perfetto, aveva anche lui i suoi difetti. Amava gli scherzi, ricordò. Una volta, quando lei si era presa una cotta terribile per un tipo, Stuart aveva fatto in modo che lei ne parlasse al telefono, e solo dopo le aveva detto che era in viva voce e che il tizio in questione era lì con lui. Avrebbe voluto ucciderlo con le sue stesse mani, ma poi lui si era scusato. E il ragazzo in questione le aveva chiesto di uscire.

Terribile. Era uscita con quel cretino per due anni.

Sorrise. Ricordò l'espressione soddisfatta di Stuart, come un gatto che ha mangiato il canarino. Molto tempo fa, in un altro mondo, prima di capire che cos'è la vita da adulti, erano stati amici. Buoni amici.

Dopo il diploma, Stuart aveva ricevuto diverse offerte di borse di studio. Era una delle persone più creative che lei avesse mai conosciuto. L'aveva anche coinvolta nella realizzazione di un cortometraggio, che era stato premiato come il migliore della scuola. Alla fine però si era iscritto alla facoltà di Economia, in Florida. L'aveva invitata alla sua festa di laurea, ma lei quell'estate lavorava come skipper e non era potuta andare. Poi si era occupato di siti web, ma sognava di tornare a studiare per dedicarsi alla scrittura o al cinema.

Buffo, non ricordava cosa avesse deciso. Strano, non ricordare una cosa del genere. L'unica cosa che rammentava con chiarezza era il suo tono di voce, basso, sicuro, serio. E ricordava anche che l'ultima volta che si erano visti a pranzo si erano promessi di vedersi alla fine dell'estate. E di frequentarsi di più. Poi però lui era partito per New York e lei aveva iniziato i suoi corsi. E quella promessa, come molte altre, si era persa nella vita di tutti i giorni.

Stuart.

Ashley guidava e fissava la strada davanti a lei.

Ma nella sua mente c'era quel corpo steso sull'autostrada.

Il corpo di Stuart.

 

5

 

Era stato un lungo fine settimana di inferno.

Jake lo aveva passato quasi tutto a cercare di scoprire cos'era successo ai seguaci di Peter Bordon da quando la setta era stata smantellata. Nel tempo che gli era rimasto si era dedicato a sistemare la barca. Era già in possesso di parecchie informazioni che gli sarebbero state utili per le indagini, e per il resto poteva contare sul valido aiuto di Hank Anderson, un mago del computer, fra i migliori che avesse mai conosciuto. Hank si era messo subito al lavoro e gli aveva fornito diverse notizie, di cui però Jake era già a conoscenza. Non aveva mai smesso di occuparsi del caso. Non poteva farne a meno. Ma non lo aveva detto a nessuno, per evitare che i colleghi pensassero che la sua fosse un'ossessione.

Sabato pomeriggio era stato convocato dal capitano Blake, il capo della omicidi, che gli aveva parlato con severità e chiarezza. I bravi detective lavorano senza badare all'orario, aveva detto. Fanno molto di più di quello per cui vengono pagati. Ma non perdono mai la testa. Sanno quando è il momento di andare a casa e pensare alla loro vita privata.

Jake si era dichiarato d'accordo su tutto.

L'ultima vittima era morta da tempo. Agitarsi come matti non le sarebbe stato di nessun aiuto. Il servizio migliore che le si poteva rendere era lavorare con metodo e regolarità per assicurare l'assassino alla giustizia.

Dopo questa premessa, Blake lo aveva esortato ad attenersi ai fatti, a lavorare sodo e a fermarsi di tanto in tanto per avere la mente lucida. Un poliziotto troppo stanco, troppo stressato o troppo ossessivo non serviva a nessuno.

Garantito.

Però erano molte le cose che Jake voleva seguire di persona.

Primo, l'autopsia. Come promesso, Gannet si era messo subito all'opera e Jake aveva assistito. Poi aveva passato ore con Hank. A riesaminare i vecchi casi e a cercare di scoprire qualcosa che riguardasse il nuovo delitto. Sabato sera, lui e Marty si erano attaccati al telefono per rintracciare gli ex seguaci del culto di Bordon. Ci sarebbe voluto molto tempo per interrogarli tutti. Le telefonate iniziali erano state un fallimento. La prima donna con la quale avevano parlato si era sposata e aveva un bambino di tre anni. Essere stata un membro della setta era motivo di imbarazzo per lei, suo marito non ne sapeva niente. Aveva giurato che non conosceva le vittime e che non aveva mai fatto parte dei vertici della setta. Entrambi si erano convinti che diceva la verità.

La seconda telefonata era stata altrettanto inutile. Quel giovane era andato a sentire solo un paio di sermoni e niente di più. In seguito aveva aderito a un'altra setta e ora passava quasi tutto il suo tempo a lavorare in un ricovero per senzatetto. Avevano verificato la sua storia e scoperto che aveva detto il vero.

La domenica pomeriggio di solito per Jake era un giorno di riposo. Si vedeva con qualche amico, beveva una birra e chiacchierava di pesca.

Non quella domenica. Era stato troppo occupato con i collegamenti per la luce e per l'acqua. Non era neanche passato da Nick. Era andato a trovare suo padre. Da quando era rimasto vedovo, due anni prima, trascorreva il tempo seduto da solo al buio e ripeteva a tutti che stava benissimo.

In un certo senso aveva eseguito gli ordini di Blake. Ma non c'era ordine, ragione o logica che potessero costringerlo a smettere di pensare, di scervellarsi, di pianificare. Era questo il problema.

Lunedì mattina Jake si era appena seduto alla sua scrivania, quando ricevette la telefonata di Neil Austen, della scientifica.

«Volevo solo aggiornarti sui tentativi di identificazione di Jane Doe, la tizia senza nome di sabato. Puntiamo molto sui denti, ma finora non abbiamo ricavato nulla. Non credo che fosse di queste parti. Se lo era, comunque, nessuno l'ha data per dispersa. Oppure non è mai stata dal dentista. È possibile. I denti erano perfetti, neanche una carie. Abbiamo diffuso le informazioni, speriamo che qualcuno la riconosca. Quante persone arrivano a trent'anni senza una carie?»

«Grazie, Neil» borbottò Jake.

«Vorrei poterti dire qualcosa di più. Queste cose richiedono tempo, purtroppo.»

Sapevano entrambi quanto fosse vera quella frase. In molti casi potevano passare settimane, o anche mesi, solo per scoprire l'identità della vittima. Alcuni cadaveri sarebbero rimasti senza nome per sempre. Ma con l'aiuto della scientifica e dei computer c'era qualche speranza in più di arrivare all'identificazione in tempi rapidi.

«Puoi dirmi altro? Fra i venti e i trenta, dentatura perfetta...»

«Alta all'incirca un metro e sessantotto. Corporatura media. Mai avuto figli. Secondo Gannet si tratta di un omicidio rituale.»

«Come...?»

«Sì, come...» mormorò Neil con un sospiro triste. «Probabilmente era anche bella. I ragazzi qui l'hanno soprannominata Cenerentola. Non era coperta di cenere, ma viste le condizioni in cui è stata ritrovata... Ci passano davanti migliaia di casi, eppure alcuni sono particolarmente difficili. Ti mando i rapporti di quello che abbiamo. Ah, dimenticavo, Gannet dice che è morta da minimo due, massimo quattro mesi.»

«Grazie, Neil.»

«Prego. Ti terrò al corrente di tutti gli sviluppi.»

«Ci conto.»

Jake riagganciò e aprì la pratica dell'ultima delle vittime uccise cinque anni prima. In alto a destra c'era la fotografia della donna, con un sorriso timido.

Dana Renaldo.

Anche lei era fra i venti e i trenta. Ventisette, per la precisione. Alta uno e settanta. Cinquantatré chili. Attraente ed entusiasta. I genitori erano morti. Un cugino ne aveva denunciato la scomparsa più di un anno prima che venisse ritrovato il cadavere. Era di Clearwater. La polizia aveva condotto qualche indagine al momento della denuncia, ma visti i primi esiti non era andata oltre. Risultava che avesse fatto le valigie e chiuso i conti correnti. Tre mesi prima della scomparsa aveva terminato un divorzio difficile. Niente figli. Così le autorità locali avevano concluso che avesse deciso di partire per iniziare una nuova vita. Un adulto poteva decidere di sparire, se era quello che voleva, non c'era niente di illegale. Poi però il corpo era stato rinvenuto a Miami-Dade. Dana aveva lavorato per un'agenzia immobiliare, per un'assicurazione e, subito prima della sua scomparsa, era stata assistente legale presso uno studio di avvocati a Tampa. L'avvocato per cui lavorava aveva dichiarato che la donna aveva rassegnato le dimissioni inviando una lettera scritta a mano.

Sembrava che l'attuale Jane Doe, o Cenerentola, come la chiamavano quelli della scientifica, le somigliasse molto.

Jake passò a un'altra pratica.

Eleonore Ellie Thorn.

Non assomigliava affatto a Dana Renaldo o a Cenerentola. Veniva da Omaha, e non era rientrata a casa dopo una vacanza a Fort Lauderdale. Aveva rifiutato un lavoro, ripulito il conto presso una banca locale, ed era stata vista di tanto in tanto in giro per la città. Aveva frequentato gli incontri di preghiera di Bordon e si era fermata spesso nei locali della comunità. Alta quasi uno e settantotto, bionda e atletica. Come le altre, era stata trovata solo dopo che il tempo e gli elementi atmosferici avevano distrutto ciò che restava del corpo.

La prima delle tre vittime del passato si era laureata in architettura a Tulane. Era intelligente e, a quanto dicevano gli amici, molto determinata. Era orfana ed era stata cresciuta fin da piccola in famiglie affidatarie. Grazie all'impegno e a qualche borsa di studio, era riuscita ad arrivare alla laurea. Aveva ventisei anni quando era stata uccisa, era bassa, un metro e cinquantotto, e non arrivava a quarantacinque chili. Abitava a Miami Beach. Era molto religiosa e bisognosa di conforto spirituale, quindi doveva essere stata una facile preda per Peter Bordon, alias Papa Pierre.

«Nessun dubbio, Peter Bordon è ancora in carcere.» Marty gli posò una cartellina sulla scrivania.

«Non ho mai pensato il contrario.»

«Senti questa. È un prigioniero modello. Lo rilasceranno presto per buona condotta. Oltretutto, è dentro per un crimine non violento. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui lo ritengono educato e perbene. Leggi il rapporto. No, forse è meglio di no, potresti vomitare. Be', vomito o no, devi leggerlo. La parte dello psicologo del carcere ti piacerà molto. "Il signor Bordon è pentito di aver pensato che la sua gestione contabile non causasse danni alla società. Ha l'atteggiamento di chi è pronto a saldare i suoi debiti. Non rappresenta certo un pericolo per la società. È molto religioso, si è comportato spesso da amico nelle circostanze più difficili ed è molto popolare fra i carcerati".»

Jake fissò Marty. Sentiva i muscoli del collo irrigidirsi come se qualcuno lo stesse strozzando. Prese la pratica con un sospiro.

«Non è lui che commette i crimini, Jake.»

«Questo lo sapevamo già.»

«Era in prigione quando è stata uccisa l'ultima Jane Doe. Gannet ritiene che sia morta da quattro mesi.»

«Ho parlato con gli esperti della scientifica. Ero presente all'autopsia. Jane Doe...» mormorò Jake innervosito. Guardò Marty pensieroso. «La chiamano Cenerentola. Quei ragazzi hanno visto quanto di peggio al mondo, eppure lei è riuscita a intenerirli.»

«Te lo ripeto: per tutto questo tempo Bordon è rimasto in carcere.»

Jake sospirò di nuovo. «E io ti ripeto, Marty, che non ho alcuna difficoltà a crederci. Ma questo non significa niente. Dove fosse fisicamente, cinque anni fa, non ha avuto alcuna importanza. Non ne ha avuta allora e non ne ha oggi. Un'altra donna è morta. E quel bastardo in qualche modo è coinvolto.»

«Non ne abbiamo la certezza, Jake.»

«Istinto.»

«Sai che se ne fa il procuratore dell'istinto... Jake» Marty sedette alla sua scrivania, di fronte a quella di Jake, «un'altra donna con le orecchie mozzate. Cenerentola. Hanno sentito il bisogno di darle un soprannome. Certi casi ti prendono proprio. Non lo trovi strano? Non sappiamo neanche chi sia, le diamo un soprannome e tutto di colpo diventa più personale, e in un certo senso ancora più difficile.»

Era vero. Diventava tutto più difficile quando una sfumatura, un particolare anche poco importante, permetteva di vedere con più chiarezza la vita della vittima. Jake ricordò il momento in cui si era trovato al tavolo dell'autopsia. Se possibile, la sua stima per Gannet era aumentata. La vittima era in avanzato stato di decomposizione, eppure era ancora possibile trovare quei dettagli che la rendevano una persona. Il piccolo tatuaggio, appena visibile, alla caviglia. Il neo su quello che restava della spalla. Anche il colore dei capelli, un ricciolo che scendeva dal tavolo e che sembrava il ricciolo di una ragazza addormentata sparso su un cuscino. Poi era tornato alla realtà. Il freddo della sala dell'autopsia. L'odore. Il corpo. Quel corpo decomposto. Prima mutilato, poi divorato dagli animali. Ridotto a un mucchio di sostanze organiche di cui la natura poteva nutrirsi. La valutazione di Gannet circa il momento della morte in parte era fondata sul periodo di incubazione delle mosche e sulla formazione delle larve. Quando Jake aveva visto Dana, l'ultima delle vittime di cinque anni prima, distesa sul tavolo dell'obitorio, aveva provato la sensazione che non fosse un essere umano. Sembrava una creatura costruita in un laboratorio di effetti speciali per un film dell'orrore. Ma Gannet era bravo. Determinato a fare del suo meglio per scoprire tutto quello che era possibile. Per restituirle l'anima, se non altro. Per darle voce, combattere quelli che l'avevano ridotta in quel modo.

Jane Doe... Cenerentola. Fra i venti e i trenta. Tutta una vita davanti.

Che cosa l'aveva spinta incontro a una morte violenta, lì, nel sud della Florida?

Tutto era possibile. Forse era stata uccisa dal suo ragazzo, che aveva sferrato il colpo mortale in un impeto di passione, poi si era reso conto di ciò che aveva fatto ed era stato abbastanza sveglio da capire che, anche se i telefilm sembravano dimostrare il contrario, i poliziotti non erano tutti deficienti e che con qualche indizio sarebbero risaliti fino a lui. Forse il ragazzo aveva letto degli omicidi legati alla setta di Peter Bordon.

Forse.

Oppure qualcuno aveva ripreso là dove Bordon si era interrotto.

O forse...

Forse Bordon era coinvolto di persona.

Non c'era nulla che gli impedisse di ordinare gli omicidi dalla sua cella.

«Chi era? Da dove veniva? Perché è morta?» Marty pensava ad alta voce. «Una giovane donna che voleva solo vivere la propria vita, e che forse a un certo punto ha fatto una scelta sbagliata.»

Le parole di Marty lo fecero trasalire. Quello era il suo lavoro. E lui non era certo un novellino. Aveva anni di esperienza nella omicidi, ne aveva viste di tutti i colori. In quella contea c'erano abbastanza assassini da tenere la polizia occupata.

Era il lavoro che aveva scelto. Da quando era entrato nella polizia aveva desiderato far parte della squadra omicidi.

Aveva sempre voluto diventare un poliziotto. E non perché fosse la tradizione di famiglia. Sia il padre sia il nonno erano avvocati.

Il motivo era che una delle persone più importanti nella sua vita era stato un poliziotto. L'aveva conosciuto in Coconut Grove, quando, a diciotto anni, aveva accartocciato contro un albero il suo regalo di diploma, una Firebird nuova fiammante.

Era in stato di ebbrezza.

Troppe volte suo padre aveva fatto annullare multe per eccesso di velocità. Di solito non si metteva al volante se era ubriaco; quando beveva con gli amici non rientrava a casa. Quella volta, invece...

Aveva deciso di guidare lo stesso. Per fare il bullo. I suoi stavano pensando di acquistare una casa in fondo alla strada. Voleva mostrarla a una ragazza. Che problema c'era? Avrebbe solo sfrecciato con la Firebird per un paio di isolati, non sarebbe successo niente.

Un corno.

Era considerato da tutti un ragazzo in gamba. Football, calcio, baseball, era il migliore in ogni squadra. Aveva voti abbastanza alti da poter entrare nelle università più quotate. Sapeva sempre quando era il caso di scherzare e quando era il caso di essere seri. Ma non quella notte. Quella notte si era comportato proprio come il poliziotto l'aveva definito: un ricco moccioso figlio di papà, convinto che con i soldi si possa comprare tutto.

Carlos Mendez era nella polizia da venticinque anni, la notte che si era imbattuto in Jake dentro la Firebird sfasciata. Poteva portarlo dentro per guida in stato di ubriachezza. Ma non lo aveva fatto. Lo aveva rimproverato e quando Jake aveva cercato di dirgli che voleva chiamare suo padre, avvocato, Carlos aveva risposto che avrebbe avuto tutto ciò che era in suo diritto, la telefonata, l'avvocato, tutto quanto, ma al momento giusto. Gli aveva detto quello che pensava di lui. E che non importava quanto fosse ricco, avrebbe comunque passato una notte in prigione.

Non era stato sgarbato, non aveva usato la voce grossa. Ma qualcosa nel suo modo di parlare, così calmo e sicuro, aveva spaventato a morte Jake. Si era reso conto che avrebbe potuto uccidere non solo se stesso, ma anche la ragazza che era con lui.

«Sei nei guai, ragazzo. Ringrazia il Signore di essere ancora vivo. Questa volta hai solo disintegrato una palma. Tutto qui, non ci sono altre vittime. Potresti essere all'obitorio adesso. O potrebbe esserci la tua ragazza. Spero che tu almeno sia riconoscente, che accetti le conseguenze di ciò che hai fatto e che questa esperienza ti serva a qualcosa» gli aveva detto Carlos.

Jake aveva ascoltato. E a un certo punto, non avrebbe saputo dire con esattezza quando, Carlos Mendez aveva capito di essere riuscito a fare breccia in quel moccioso figlio di papà. Non l'aveva accusato per guida in stato di ubriachezza, ma solo per la perdita di controllo del mezzo, e l'aveva lasciato tornare a casa. A una condizione però: che Jake si impegnasse con alcune promesse. Ovviamente l'agente non aveva la certezza che Jake le avrebbe mantenute. In seguito, Carlos gli aveva detto di essersi fidato dell'istinto e che era l'istinto lo strumento più importante per un poliziotto. Non le tecnologie sofisticate.

In qualche modo, Jake si era dato una ripulita, si era rimesso in sesto ed era tornato a casa, dove sua madre si era messa a piangere e suo padre a urlare.

Aveva mantenuto tutte le promesse. Era andato un pomeriggio alla settimana alla stazione di polizia e aveva svolto cinquanta ore di servizio sociale, a distribuire pasti caldi per i senzatetto. Lì aveva conosciuto la parte peggiore della città. Uomini e donne schiavi della droga al punto da aver perso il senso della vita, e bambini che pagavano il prezzo più alto per la dipendenza dei genitori. Bambini senza futuro, nati già malati di AIDS. Vide anche quei pochi che erano riusciti a farcela. Tossici, prostitute, ladri che in un modo o nell'altro avevano cambiato vita.

Alla stazione di polizia, insieme a Carlos, aveva visto video orribili, che superavano di gran lunga qualsiasi film. Immagini di incidenti mortali, quasi tutti causati dall'alcol.

Aveva incontrato anche molte persone che Carlos avrebbe potuto arrestare e lasciar marcire in prigione per anni, e che invece aveva lasciato libere.

Aveva puntato al buio.

E aveva vinto.

Jake era sul punto di partire per andare all'università. Grazie ai suoi voti era stato accettato dai college più prestigiosi, compreso Harvard, l'alma mater di suo padre.

Ma non era partito.

Ancora una volta, sua madre si era messa a piangere e suo padre a urlare. Ma alla fine avevano accettato la sua decisione di restare a casa, studiare criminologia e fare domanda per entrare nella polizia.

Non si era mai pentito. Mai. Il padre adesso era orgoglioso di lui. Jake sapeva che se era entrato nella squadra omicidi era stato grazie a Carlos. Non perché ne facesse parte, ma perché una volta, quando era ancora allievo ed era in macchina con Carlos, il poliziotto aveva sterzato di colpo e aveva fermato la macchina sul bordo della strada. C'era un corpo, disteso nel campo.

«Non dovresti chiamare qualcuno?» aveva chiesto Jake. «Non sei in servizio.»

«Lo farò, non appena saprò di cosa si tratta e dopo aver chiuso la zona. E poi un poliziotto non è mai fuori servizio. Dovresti saperlo, Jake.»

La vittima, ormai fredda come il marmo, sembrava un vagabondo o un ubriacone. Jake non aveva notato nulla che potesse far pensare a un omicidio.

Poi lui e Carlos erano rimasti a osservare gli uomini della scientifica al lavoro. Carlos aveva detto con semplicità che aveva intuito subito che qualcosa non quadrava. Istinto. Quell'uomo era stato ucciso. Ora era muto per sempre, ma nel suo spaventoso silenzio chiedeva a gran voce che fosse fatta giustizia. Un atto dovuto. Alla vittima non restavano che loro: poliziotti ed esperti della scientifica.

Scoprirono che era un immigrato e che era stato assassinato. Il detective incaricato aveva risolto il caso in poche settimane, anche grazie a Carlos e al suo intervento. Chiudendo la scena del delitto, Carlos aveva salvaguardato le impronte, grazie alle quali si era potuti risalire a un criminale di mezza età, che aveva ucciso il vecchio per i cinquanta dollari che aveva in tasca.

Da quel giorno Jake aveva desiderato far parte della omicidi. Voleva diventare il difensore dei morti.

Ogni anno di esperienza rafforzava la convinzione di aver fatto la scelta giusta. Si era sempre comportato in modo professionale. Non aveva mai lasciato che la rabbia, il dolore, la compassione o il disgusto intralciassero il suo lavoro.

Ma questo caso era diverso. Poteva sentirne il gusto acido in bocca. Amaro e doloroso.

Fece un respiro profondo e tornò al presente.

Sapeva di non potersi abbandonare alle emozioni. Non doveva lasciar trapelare nulla, neppure con Marty, se non voleva correre il rischio di essere sollevato dall'incarico.

«Hai finito la pratica sul caso Trena?» chiese Marty.

«Sì, è la prima delle pratiche in uscita.»

«Allora la mando al procuratore insieme al mio rapporto. A quanto sembra l'avvocato di Trena, dopo aver visto le prove dell'accusa, ha consigliato al cliente il patteggiamento.»

In quel momento un agente portò a Jake una busta con gli aggiornamenti sulla vittima soprannominata Cenerentola. Lui la prese, poi tornò a prestare attenzione a Marty. C'erano anche altri casi di cui doveva occuparsi.

«Ha fatto bene a chiedere il patteggiamento» borbottò Jake mentre apriva la busta. «Abbiamo la pistola, le sue impronte, l'acquisto dei proiettili fatto con la carta di credito intestata alla moglie. Qualsiasi condanna sarà sempre meglio della pena di morte.»

Marty sorrise, per niente divertito. «Ti ricordi di quel tipo che aveva scaricato cinque colpi nella pancia dell'amico? Il suo avvocato riuscì a convincere la giuria che i colpi erano partiti per sbaglio dalla pistola. Cinque colpi.»

«Comunque sono contento che Trena si dichiari colpevole. Almeno se ne starà al fresco per un po'.»

Marty si alzò e iniziò a riordinare alcune carte. Jake aprì la busta. Studiò con attenzione il rapporto. Senza sollevare lo sguardo, disse a Marty: «Continuiamo le ricerche sui seguaci di Bordon che conosciamo, vediamo di scoprire cosa fanno adesso e controlliamo le loro attività. Proseguiamo anche con gli interrogatori porta a porta, anche se non credo che avremo grandi risultati. Finché non risaliamo all'identità della vittima, abbiamo pochi elementi su cui lavorare». Fece una pausa, poi continuò calmo: «Penso che farò un viaggetto, questa settimana».

«Vuoi compagnia o è meglio che io resti qui?»

«Meglio che resti qui.»

«Ma volevi interrogare tu i seguaci di Bordon. Sicuro che non preferisci che vada io?»

Jake scosse la testa. «No, ma grazie lo stesso. Voglio parlare con Bordon.»

Marty spostò il peso da una gamba all'altra, nervoso. «Hai già parlato con Bordon, tempo fa.»

Era vero. Ed era stato solo grazie a Marty se non aveva buttato al vento la sua intera carriera. Per poco non aveva strangolato Bordon. Marty e un altro poliziotto erano riusciti a fermarlo. Marty sapeva quanto Jake odiasse Bordon, anche se non credeva che la morte di Nancy fosse collegata a quel caso. Anche per lui era dura. Era in servizio con un collega quella notte ed era stato fra i primi ad arrivare al luogo dov'era stata ritrovata l'auto di Nancy.

«Tranquillo. So quello che faccio.»

Marty si avvicinò al suo tavolo e lo guardò poco convinto.

«Ho sbagliato quella volta, lo so. Ero troppo nervoso. Ma adesso sto bene. Non posso uccidere Bordon.»

«Cosa vuol dire che non puoi? Sono pronto a scommettere di sì. Certo, non è un magrolino imbranato, ma tu sei molto più forte di lui, e ti assicuro che quel giorno mi hai fatto paura. Non sono così tranquillo che riuscirai a restare calmo e a non perdere il controllo.»

«Fidati.»

«Ma...»

«Non posso ucciderlo, Marty. Non posso. Ho bisogno di lui, vivo.»

«Perché? Sappiamo entrambi che è un. assassino, anche se non si sporca direttamente le mani. Perché dovresti aver bisogno di lui?»

«Perché dobbiamo scoprire cos'è successo cinque anni fa, e se ci sono legami con l'ultima vittima. C'è qualcosa che ci sfugge. È chiaro che il mandante degli omicidi è Bordon e che c'erano altre persone coinvolte. Forse Harry Tennant ha davvero ucciso quelle donne, ma non posso credere che abbia agito da solo. Dobbiamo scoprire la verità, o non ci libereremo mai di questo caso.» Jake rimase in silenzio per qualche istante, poi parlò con franchezza, perché il collega potesse capire. «Io ho bisogno della verità. O non me ne libererò mai.»

Dopo un secondo, Marty annuì. «Sì, capisco. Ma te la senti di andarci da solo? L'inchiesta non è mai stata chiusa e sono sicuro che il capitano Blake organizzerà una squadra speciale e metterà molti uomini su questa indagine. Se vuoi posso venire con te.»

«Voglio che uno di noi due resti qui. Perché non sfugga niente, neppure il minimo dettaglio. Abbiamo bisogno di tutte le informazioni in archivio e di continuare a scavare per ottenerne di nuove sui seguaci di Bordon: i nomi di tutti quelli legati alla setta, ciò che hanno fatto da quando Bordon è finito in prigione.»

Squillò il telefono e Jake rispose.

Era il capitano Blake.

«Mi hanno detto che sei stato molto occupato, questo fine settimana.»

«Domenica non ero di turno.»

«L'hai passata a leggere rapporti?»

«Sono andato a trovare mio padre.»

«Bene. Ho visto i rapporti della scientifica sulla ragazza trovata sabato. Sì, è molto simile agli omicidi di cinque anni fa. E sì, la vecchia squadra torna al lavoro. Se mi giuri che non perderai la testa e che terrai per te le supposizioni infondate, ne sei di nuovo a capo, detective.»

«Posso farlo.» Esitò. «Grazie.»

«Nessuno sa meglio di te come sono andate le cose allora. Il caso è sempre stato tuo ed è logico che continui a esserlo. Naturalmente potrebbe trattarsi di un...»

«Imitatore? Sì signore, lo sappiamo.»

«E tu non sei il giustiziere solitario, Jake. Questo è un lavoro di squadra.»

«Sì, signore.»

«Ottimo. Riunione alle dieci e mezzo nel mio ufficio.»

«Sì, signore.»

«Ci sarà anche Franklin dell'FBI. È un problema?»

«No, signore.» Certo che lo era, ma non era il caso di dirlo a Blake. Ed era meglio che neppure Franklin lo capisse.

«Belk, Rosario, MacManus e Rizzo completeranno la squadra. Puoi fare richiesta di rinforzi, se lo ritieni necessario.»

«È un'ottima squadra.»

«Dieci e mezzo» ripeté il capitano Blake.

«Sì, signore, ci saremo.»

Jake riagganciò e fissò perplesso il telefono.

«Allora?» chiese Marty.

Lui si strinse nelle spalle. Marty era un ammiratore di Sir Conan Doyle. «Come direbbe il tuo super investigatore vittoriano, Marty, i giochi sono cominciati.» Poi si affrettò ad aggiungere: «Riunione alle dieci e mezzo nell'ufficio del capitano Blake. Con tutta la squadra. La stessa di cinque anni fa. Ci sono Belk e Rosario, MacManus e Rizzo. E Franklin, dell'FBI».

«Franklin?» ripeté Marty preoccupato.

«Perché, è un problema?» chiese Jake.

«Problema? No, certo che no.» Marty tornò a sedersi alla sua scrivania.

«Nessun problema» disse Jake.

«Che palle» borbottò Marty.

«Sì, lo so.»

«Che palle» ripeté Marty. Scosse la testa. «Franklin.» Guardò Jake sconsolato. «Abbiamo un problema.»

«Ce la caveremo.»

«Sì, certo» sospirò Marty. Iniziò a cercare informazioni al computer. Non smise di scuotere la testa.

«Che palle. Franklin» ripeté.

«Guarda che ti sento, Marty.»

«Ce la caveremo» lo scimmiottò lui.

«Non c'è niente che ci possa intralciare in questo caso. Niente e nessuno.»

«Giusto, niente e nessuno.»

Più tardi, dopo aver passato le prime ore della mattinata a rileggere i rapporti e a cercare dati e informazioni, Jake avvisò Marty che la riunione stava per iniziare.

Marty continuava a scuotere la testa. Si alzò, prese la giacca e raggiunse Jake per andare nell'ufficio del capitano. «Che palle. Franklin.»

Jake lo fissò.

«Ultima volta. Era l'ultima» giurò Marty.

«Sicuro? Meglio che ti sfoghi adesso.»

«Che palle. Franklin» disse con rabbia. Poi sorrise. «Ora possiamo andare.» Si strinse nelle spalle. «È un tipo efficiente. È solo che è così... coglione. E cammina come se avesse un manico di scopa nel culo. Però se la cava bene con il computer.»

«Dieci e ventotto. Andiamo.»

«Che palle. Franklin.»

 

6

 

«Fondamenti» iniziò deciso il sergente Brennan, rivolto agli studenti. «Perché continuiamo a battere su questo tasto? Perché dimenticare i fondamenti significa gettare alle ortiche l'intero lavoro di decine di poliziotti e di tecnici. Siamo agenti al servizio della legge. Non siamo la legge. Senza la legge non possiamo fare nulla. Voi avete superato i test di ingresso per essere ammessi a frequentare questo corso. Avete superato gli esami di verifica, fra non molto prenderete il diploma e non vedrete l'ora di iniziare la vostra carriera di poliziotti. Ognuno di voi è venuto qui con un sogno, un'aspettativa, un traguardo da raggiungere. Ma senza fondamenti non otterrete niente. Primo, perché siamo qui? Jacoby.»

Brennan puntò il dito verso Arne Jacoby, seduto accanto ad Ashley. Con il suo fisico, Jacoby poteva sembrare nato per proteggere, oppure essere uno dei peggiori figli di puttana della città. Centotrenta chili di muscoli in un metro e novantatré di altezza. Era un bel ragazzo, la pelle color ebano, i capelli rasati e gli occhi verdi.

Jacoby sorrise. All'accademia, in ogni corso vi erano esperti che tenevano lezioni su diversi argomenti, ma Brennan era il loro sergente, l'istruttore capo per tutto il periodo dell'addestramento. Era una brava persona e agli studenti piaceva. Era piuttosto severo, poco tollerante e parlava spesso dei principi morali che ogni ufficiale di polizia doveva possedere. Credeva fermamente in ciò che diceva e che non si stancava di ripetere: principi, etica, morale. Jacoby lo aveva seguito con attenzione.

Si alzò in piedi e i compagni alzarono meccanicamente lo sguardo.

«Per proteggere e servire» rispose a Brennan.

«Esatto. Grazie, Jacoby. Questa è la nostra principale funzione. Non infastidire chi rispetta la legge e non cercare crimini dove non esistono. Proteggere e servire. Sappiamo tutti che ci sono criminali là fuori, persone per cui la vita umana non ha valore. Avete visto i filmati. Conoscete le statistiche. Sappiamo anche di poliziotti che hanno fermato automobilisti per eccesso di velocità e si sono ritrovati con un buco in fronte, perché sono incappati in qualche delinquente o in uno psicopatico. Immaginate di avere davanti qualcuno in macchina su cui vi è un mandato di arresto. Qual è la prima cosa che dovete ricordare?»

«Non farsi sparare in faccia?» tentò Jacoby.

Brennan sorrise, riconoscendo la logica della risposta.

«E dopo?»

«Leggere all'uomo, o alla donna, i suoi diritti.»

«Esatto» disse Brennan. «Nelle ultime settimane avete ascoltato numerosi esperti che vi hanno illustrato i diversi aspetti del lavoro della scientifica. Ne sentirete altri ancora. Antropologi, entomologi, esperti di impronte digitali, botanici, chimici, esperti di balistica, matematici, disegnatori, biologi, ematologi, psicologi e linguisti. Il lavoro di tutte queste persone ha una grande importanza. Ma diventa del tutto inutile, se la polizia agisce con trascuratezza. È a questo punto che entrano in gioco i fondamenti. Qualcuno mi parli dell'emendamento Miranda. Montague.»

Ashley si alzò in piedi e cominciò a elencare i diritti che devono essere letti a ogni sospetto, gli stessi che chiunque ami i film polizieschi ha sentito decine di volte.

«Molto bene, Montague. E che mi dici del frutto dell'albero velenoso

«Immaginiamo che un poliziotto non legga a un sospettato di omicidio i suoi diritti. E che mentre parla con l'indiziato venga a sapere dove è nascosta l'arma del delitto e la trovi. Un giudice potrebbe non ammettere l'arma come prova perché è stata scoperta grazie a informazioni ottenute prima che al sospetto fossero letti i suoi diritti.»

Brennan annuì e fece cenno ad Ashley di sedere. «Sono cose che sapete tutti. So che le sapete. Questa mattina non voglio insegnarvi qualcosa di nuovo. Voglio che impariate che non dovete mai dimenticare i fondamenti del mestiere di un bravo poliziotto. Forse nessuno di voi sogna di entrare nella squadra omicidi, ma non potete sapere se vi capiterà di essere i primi ad arrivare sulla scena di un delitto. Ciò che farete in quel momento può compromettere le indagini o aiutare a risolvere il caso. Imparerete molte altre cose, ma se trascurate o dimenticate le basi, ogni prova potrà essere rifiutata dalla corte. È tutto per ora. Pausa pranzo. Nel pomeriggio ascolterete un ematologo. Adesso, fuori di qui.»

«Ehi, Montague, ti prendo qualcosa?» chiese Jacoby.

«Un hot dog, grazie» rispose Ashley. «Vi raggiungo, ma prima devo controllare la segreteria e fare un paio di telefonate. Aspetta, ti do i soldi.»

«Lascia stare, mi offrirai una birra da Nick, una domenica.»

«Affare fatto.»

Jacoby uscì a prendere il cibo. Ashley si appartò in un angolo e accese il cellulare per sentire i messaggi.

Come promesso, Nick aveva chiamato l'ospedale. Stuart era ancora in terapia intensiva. Solo i familiari potevano vederlo.

Comunque era vivo. Nick si scusava di non essere riuscito a ottenere maggiori informazioni.

Non era molto, ma Stuart era vivo.

Doveva farcela, pensò Ashley, doveva restare in vita, uscire dal coma e raccontare cos'era successo. Così avrebbe potuto chiarire tutto e discolparsi da quelle accuse assurde.

E se invece non si fosse risvegliato mai più?

 

«Allora?» chiese Jake.

Marty aveva appena riagganciato. Dopo la riunione, avevano passato ore al telefono.

Marty lo guardò. «Non arriveremo da nessuna parte seguendo la pista di John Mast, il contabile di Bordon.»

«Perché? È uscito di prigione sei mesi fa. Lavora in un centro di riabilitazione a Deray.»

Marty sembrò sorpreso. «Come fai a saperlo? Scusa, domanda scema. Non hai mai mollato, vero Jake?»

«Sì, sapevo dov'era. Almeno volevo tenere sotto controllo le persone coinvolte. Ma di Mast a un certo punto ho perso le tracce, per questo ti ho chiesto di verificare.»

«Comunque, non credo che ci dirà molto.»

«Perché no?»

«Due mesi dopo essere uscito di prigione, l'aereo su cui viaggiava è precipitato a nord di Haiti.»

Jake picchiò il pugno sul tavolo, esasperato. «Dobbiamo assolutamente riuscire a identificare la nuova vittima.»

«Nei prossimi giorni inizieranno la ricostruzione facciale. Non possiamo usare una foto, ma qualcuno bravo forse può fare un buon identikit.»

Jake prese il telefono. «Parlo con quelli della stampa, per essere sicuro che avremo la loro totale collaborazione. Voglio che il disegno venga pubblicato con il dovuto risalto, bello grande. Lo faremo avere anche alle emittenti televisive. Qualcuno deve averla vista, da qualche parte.»

Mentre Jake componeva il numero, un altro telefono squillò. Marty rispose, poi coprì il microfono con la mano. «Con i giornali ci parlo io. È meglio che tu prenda questa.»

Jake si accigliò e prese il ricevitore. «Dilessio.»

«Jake?»

Si sentì gelare. «Sì, Brian.»

«Ho letto il giornale. C'è una nuova vittima.»

«Lo so, Brian.»

«Forse Nancy sapeva davvero qualcosa che non doveva sapere.»

«Abbiamo già indagato e non abbiamo scoperto niente, lo sai.»

«Sì, ma adesso hai un'altra donna morta per le mani.»

«Lo so benissimo.»

«Sì, certo, solo che... volevo dirtelo, tutto qui. E... mi dispiace per l'altra sera.»

«Non c'è problema.»

«Se hai bisogno di aiuto, di qualsiasi genere...»

«Ti chiamo. Lo farò, credimi» rispose Jake.

«Posso fare delle ricerche, sono bravo.»

«Brian, credimi, ora sono a un punto morto. Ti chiamerò se ho bisogno.»

«Grazie.»

Jake riagganciò.

«Siete diventati amiconi, adesso?» chiese Marty.

«No, mi è comparso ubriaco sulla barca l'altra notte, pronto a fare a botte.»

«Allora è ancora convinto...»

«Siamo entrambi convinti di una cosa: che Nancy non fosse il tipo da suicidarsi. E neppure da avere incidenti tanto facilmente.»

Marty tornò a studiare i vecchi fascicoli. «Accidenti, questo disegno fa schifo. Dobbiamo trovare qualcuno che sia meglio di Dankins.»

Jake guardò l'identikit della prima vittima, quello eseguito prima che riuscissero a identificarla. Doveva essere stato difficile per il tecnico della scientifica cercare di ricostruire quel volto con così pochi elementi, e il risultato non era granché.

«Sono due mesi che Dankins non lavora più per noi» annunciò Jake.

«Non lo sapevo.»

«In effetti fa schifo. Potrebbe essere chiunque.»

«Già, assomiglia a mia zia Betty, quando si è ubriacata la notte di Halloween.»

Jake si alzò e prese la giacca. «Sei pronto? Oggi iniziamo da Mary Simmons.»

«Quella della setta di Bordon?»

«Sì, l'ho trovata. Adesso fa parte degli Hare Krishna. Ci aspetta oggi pomeriggio.»

«L'hai trovata?» domandò piano Marty. «O hai sempre saputo dove trovarla?»

«Fa differenza?» chiese Jake.

«Direi di no. Mi è sempre stata simpatica la gente che se ne va in giro in tunica» osservò Marty. «Non vedo l'ora. Finalmente un po' di movimento.»

 

Dopo aver ascoltato il messaggio, Ashley raggiunse i compagni, seduti ai tavolini all'aperto. Arne le aveva preso un hot dog, insieme a una quantità di salse. Al tavolo, oltre ad Arne, c'erano Gwyn Mendoza, Dale Halloran e Izzy Rodriguez.

Poco dopo, Ashley fu stupita di veder arrivare Len Green. Len fece un cenno di saluto al gruppo e si unì a loro.

«Ciao Len!» esclamò Izzy.

«Attenti, è un poliziotto vero» scherzò Gwyn. «Cosa ci fai da queste parti? Non dovresti essere a Miami-Dade a sventare crimini?»

«Scartoffie» rispose Len con una smorfia. «La gente non si immagina neanche quanto lavoro d'ufficio siamo costretti a svolgere. Uno starnuto fatto al momento sbagliato durante un arresto, e devi scrivere pagine e pagine di rapporti. Non fate quelle facce, ho un po' esagerato, non vorrei che abbandonaste tutti l'accademia.»

Ashley si unì alla risata dei compagni. Aveva conosciuto Len da Nick. Non era uno dei clienti abituali, non possedeva una barca e non era un pescatore. Era andato per mare con un amico e al ritorno era passato al bar. L'aveva vista studiare i documenti per entrare all'accademia e avevano cominciato a parlare. Era tornato dopo qualche settimana e le aveva chiesto di uscire.

A quel punto lei conosceva la data dell'esame di ammissione e gli aveva spiegato che non voleva impegnarsi con nessuno fino a quando non avesse terminato il tirocinio. Lui le aveva proposto di mangiare insieme ogni tanto e magari andare al cinema. E così era stato. Erano solo amici. Sarebbe stato fantastico se lui e Karen si fossero piaciuti.

«Come va?» le chiese.

Arne Jacoby sbuffò. «Come le va? È la prima della classe, mai che risponda a una domanda con una risposta breve. Qualunque cosa le chiedano, lei ci ha fatto su una ricerca.»

«Veramente non parlavo della scuola» precisò Len. «Vi ha raccontato del corpo che ha visto sull'autostrada? C'era un articolo sul giornale che ne parlava. Te l'ho tenuto, Ashley, in caso non l'avessi visto.»

«Grazie Len, l'ho letto. È peggio di quanto pensassi.»

«Di cosa state parlando?» chiese Arne. «C'è stato un incidente?»

«Sì, un incidente strano e triste» rispose Ashley. «Questo fine settimana sono andata a Orlando con delle amiche e abbiamo visto un incidente sulla I-95. Un pedone investito. Camminava per la corsia dell'autostrada. In mutande. Ho scoperto che è un ragazzo che conosco. Eravamo amici, molti anni fa.»

«Lo conoscevi?» chiese Len.

«Mi pare di averne sentito parlare in qualche bollettino sul traffico» mormorò Gwyn pensierosa. «E c'era anche sul giornale.»

«Strano caso. Il ragazzo era in mutande e correva sull'autostrada. D'accordo che siamo a Miami... Era membro di qualche confraternita o cose del genere, e stava facendo una bravata?» chiese Len.

«No, non Stuart. Non studia più, lavora. E poi si è laureato con lode, non è un tipo da confraternita.»

«Allora» insistette Gwyn, «perché era lì?»

«Dicono che fosse strafatto» spiegò Len. «Ma non so nient'altro. Se ne devono essere occupati quelli di North Miami, o forse quelli di North Miami Beach. Ma si può provare a scoprire qualcosa. Adesso è in coma. Da quello che ho letto, però, era veramente pieno di droga.»

«Si drogava quando lo frequentavi?» chiese Izzy in tono gentile.

«No!» esclamò Ashley, indignata. «E non posso credere che sia diventato un drogato.»

«Quando è stata l'ultima volta che l'hai visto?» domandò Arne.

«Qualche anno fa» ammise Ashley.

Guardò in faccia i compagni e vide che avevano tutti la stessa espressione. Come se non volessero dire la cosa più ovvia. Era da tanto che non lo vedeva. Gli esseri umani sono fragili. Non si poteva escludere che in quegli anni fosse diventato un drogato.

«Comunque sia, intendo saperne di più» borbottò Ashley.

«Chiedi a Brennan, forse sa qualcosa, o può indirizzarti alla persona giusta» suggerì Len.

«Buona idea» disse Gwyn. Sorrise ad Ashley.

Lei e Ashley andavano d'accordo. Si erano piaciute subito. Gwyn era un tipo deciso, senza troppi peli sulla lingua, ma era attenta e affettuosa. Era di colore, nata a Cuba, ed era cattolica. Una volta aveva detto ad Ashley che stava prendendo in considerazione l'idea di convertirsi al giudaismo per essere sicura di appartenere a tutte le minoranze della città. Studiava molto, si impegnava e voleva fare bene il suo lavoro.

«Se hai bisogno di aiuto, o hai voglia di parlare un po', conta pure su di me» aggiunse Gwyn.

«Grazie.»

«Siamo tutti pronti ad aiutarti, Ashley» intervenne Arne.

«Idem» disse Izzy.

«Grazie, davvero.»

«Chiederò anch'io in giro» la rassicurò Len. Si alzò. «Devo tornare alla centrale. E voi dovete tornare in classe. Conosco Brennan. Guai ad arrivare in ritardo.»

Baciò Ashley su una guancia, salutò gli altri e si diresse al parcheggio.

Arne aiutò Ashley ad alzarsi. «Pronta per tornare dentro?»

«Abbiamo ancora un po' di tempo» commentò Gwyn.

«Scusatemi, devo fare una telefonata veloce...» mormorò Ashley.

Si alzò, gettò via i resti del pranzo e s'incamminò verso l'edificio. Compose il numero del cellulare di Karen, che le rispose subito.

Karen aveva visto il nome sul display e non le lasciò il tempo di parlare. «Hai letto il giornale? Mi sembra ancora impossibile che fosse Stuart. Siamo passate vicino a un corpo sull'autostrada, ed era solo un corpo, non sto dicendo che non sia stato orribile, ma siamo arrivate lì che era appena successo... Ed era Stuart Fresia.»

«Sì. Ti chiamo per questo.»

«Sono contenta di sentirti. Avevo voglia di parlarti, ma sapevo che eri a lezione. Non riesco a crederci. Cioè, è il ragazzo più dolce, serio e onesto che ci sia mai capitato di incontrare. Cosa può essere successo?»

«Non lo so. Vorrei tanto saperlo. Farò un po' di domande in giro.»

«Sei un poliziotto. O un quasi poliziotto. Non dovresti avere difficoltà a trovare qualcuno che ti possa dare informazioni.»

«Ci proverò.»

«Spero...»

«Cosa?»

«Spero che sia ancora vivo» sussurrò Karen.

«È vivo. Almeno lo era fino a stamattina. Nick ha chiamato l'ospedale. È ancora in terapia intensiva. Può entrare solo la famiglia.»

«Comunque andarlo a trovare non servirebbe a niente, se è in coma.»

«Adesso devo rientrare. Volevo solo parlarne con te.»

«Grazie. Mi raccomando, chiamami appena sai qualcosa.»

«Promesso.»

Ashley chiuse la comunicazione e vide che gli altri erano già rientrati. Guardò l'orologio. Il tempo era volato, rischiava di arrivare in ritardo.

Si precipitò nell'aula ed entrò appena in tempo. Tutti gli altri erano già seduti. Si diresse velocemente al suo posto e si accorse che il capitano Murray, il capo del personale, aveva scelto proprio quel pomeriggio per venire a dare un'occhiata alla classe. Era accanto a Brennan. Ashley avrebbe voluto sprofondare. Mentre raggiungeva il suo posto si sentiva addosso gli occhi di tutti.

Poi Brennan parlò alla classe per pochi minuti. Disse che Shelly Garcia, della scientifica, avrebbe parlato delle tracce di sangue e dell'importanza della scena del delitto e che poi il capitano Murray avrebbe illustrato loro quali strade potevano prendere dopo il diploma.

Brennan si sedette e la donna iniziò a parlare. La lezione era interessante e Ashley la seguì con attenzione. Poi Murray parlò delle varie specialità all'interno del dipartimento. Ashley prendeva appunti, come facevano tutti. Ma a tratti si distraeva e pensava ad altro.

Senza accorgersene, iniziò a disegnare la scena dell'incidente.

E ancora una volta...

Quella figura. La figura in nero, sulla corsia opposta, che guardava.

 

Mary Simmons li aspettava sul retro e li accolse con un sorriso. Aveva trentacinque anni, ma ne dimostrava dieci di meno. Aveva tutta l'aria di chi è in pace con se stesso. Il giardino era ben curato, con panchine e aiuole fiorite. C'era un'atmosfera serena.

«Grazie di averci ricevuto» disse Marty.

«Prego.» Guardò Jake. «Vi chiedo solo di lasciare in pace i Krishna.»

«Sono anni che siete qui. Sappiamo che è tutto in regola.»

Lei si strinse nelle spalle e lo guardò. «Non so proprio cosa potrei dire che non abbia già detto le altre volte.» Spostò lo sguardo da Jake a Marty.

Marty guardò il collega e capì che lui e Mary si erano visti spesso, negli anni passati.

«Dicci tutto quello che riesci a ricordare. Qualsiasi dettaglio che possiamo aver trascurato.»

Mary annuì. «Allora, Papa Pierre, scusate, Peter Bordon, era quello che mandava avanti tutto. Predicava, era proprietario della casa, faceva proseliti e, sì, ci suggeriva di cedere alla comunità tutto ciò che possedevamo. La cosa che voi non riuscite a capire è che era gentile e affettuoso, noi lo adoravamo. Facevamo una vita molto semplice. Curavamo il giardino, l'orto e...» Fece una pausa e sorrise. «Per fortuna sono vegetariana, perché cucinavamo anche i pesci del canale dietro la casa e probabilmente erano malati o inquinati. Comunque, era una vita molto semplice. Peter aveva degli amici, ma a pensarci bene preferiva le donne. Gli unici momenti in cui ci capitava di litigare era quando sceglieva una di noi per la notte. Io ero una delle sue prime adepte. Ma nemmeno io sapevo che cosa succedeva davvero. Dormivamo nei nostri alloggi, nelle casette della proprietà. A meno che non fossimo state scelte per la notte.» Guardò Jake. «Sapevamo che di notte arrivavano delle macchine. A volte l'ho sentito parlare con qualcuno all'interno della casa. Ma non ho mai saputo chi fosse. Non sospettavo nulla. Quando abbiamo saputo che le nostre amiche erano state uccise, ci siamo spaventati. Eravamo davvero convinti che le ragazze fossero state uccise da qualcuno che odiava Peter, il nostro modo di vivere e ciò in cui credevamo. Peter ci consigliò di stare attenti, perché la polizia lo odiava, ci odiava, perché non capivano la profondità della nostra fede e il fatto che vivessimo l'uno per l'altro.» Si strinse nelle spalle. «Adesso mi è tutto chiaro, a Peter interessavano solo i soldi e il sesso. Ci aveva plagiati. Però non credo proprio che abbia mai ucciso qualcuno. O dato ordine che qualcuno venisse ucciso. Era avido, ci usava, ma non posso credere che fosse un assassino.»

«Mary» disse Jake con pazienza, «sono state uccise tre donne. Tutte e tre legate alla setta. Peter era il capo della setta.»

«Sì, lo so. Ma è Peter che può darvi delle risposte, se ci sono. Ve l'ho già detto, c'era gente che andava e veniva e che noi non abbiamo mai visto. Forse venivano per prendere i soldi che davamo a Peter, non ne ho idea.»

«E che ci racconti di Harry Tennant?» chiese Jake.

«Non aveva soldi, quindi non era certo qualcuno che potesse interessare a Peter. È rimasto da noi solo per qualche notte, che io sappia. Più ci penso, più mi convinco che potrebbe essere stato a lui a commettere quegli omicidi. Era un tipo strano. Molto strano. Voleva a tutti i costi assomigliare a Peter, non per la religione, per il potere che lui aveva sulle persone. Voleva le donne. Voleva il sesso. Ci ha provato con tutte. È probabile che odiasse Peter perché lo invidiava, e che odiasse tutte le donne che lo avevano rifiutato.»

«Mary, so che ne abbiamo già parlato a lungo e più di una volta, ma ti prego di fare ancora uno sforzo. Non vi preoccupavate, voi e Peter, quando le ragazze sparivano? Non avevate paura?»

Mary scosse la testa. «Non avevamo legami, eravamo liberi di andarcene quando volevamo.» Esitò. «Sì, quando è morta la terza ragazza ho avuto paura. È venuta la polizia, ci ha interrogati. Poi Harry Tennant si è ucciso, e... Dovete capire, quando uno crede agli insegnamenti di persone come Peter, e ci crede davvero, la morte non è la fine, solo l'inizio.»

«Quelle ragazze sono state mutilate.»

«Le orecchie tagliate» sussurrò Mary.

«Forse perché non hanno voluto ascoltare. E se non era Peter quello a cui non avevano dato ascolto, allora chi era?»

Scosse la testa pensierosa. «Credo che, nella sua follia, Harry Tennant fosse molto più intelligente di quanto voi siate disposti a credere.»

«Che cosa te lo fa pensare?» chiese Jake.

«Sentiva delle voci. Parlava di Lazzaro.» Li guardò con un sorriso triste.

«Lazzaro?» ripeté Marty.

«Lazzaro, quello che è resuscitato dai morti» spiegò Jake. Sorrise a Mary e le parlò con dolcezza. «Non me l'avevi mai detto.»

«Mi è venuto in mente solo adesso. Ero convinta che Harry fosse veramente pazzo. È passato tanto tempo. Non so cosa stia succedendo adesso, ma cinque anni fa ho detto la verità, quando ho dichiarato che non ritenevo possibile che Peter fosse responsabile della morte di qualcuno. Ero convinta che il colpevole fosse Harry. Si comportava come un pazzo. Ricordo che una notte mi sono svegliata e l'ho trovato vicino al canale. Fissava l'acqua. Mi disse che Lazzaro era risorto. Che Lazzaro gli aveva detto di entrare nell'acqua. Mi fece venire i brividi. L'ho lasciato lì e sono rientrata in casa di corsa. Vi posso offrire un tè alle erbe?»

Risposero gentilmente di no e si alzarono. Jake fece il gesto di prendere qualcosa dalla tasca.

«Ho già il suo biglietto da visita, detective, e mi creda, se mi venisse in mente qualcos'altro la chiamerò.» Si alzò, sorrise e lo baciò su una guancia. «Prometto. So che state facendo del vostro meglio.»

«Grazie.»

«Non mi ha fatto la domanda che mi fa di solito» osservò.

Jake sembrò perplesso.

Mary lo fissò con simpatia. «Lo giuro, non ho mai visto la sua collega, detective Dilessio. Se è venuta da noi, io non l'ho mai vista. Spero che mi creda. Non mentirei mai. È contrario alla mia religione.»

«Lo so, Mary» disse Jake. «Grazie. E non dimenticare...»

«La chiamerò. Senz'altro. La vedo sempre volentieri, detective.»

Si allontanarono. Marty aveva rifiutato il tè, ma aveva bisogno di un caffè. Entrarono in un bar in fondo alla strada. Marty ordinò un espresso e Jake un caffè doppio.

«Non ne caveremo fuori niente» borbottò Marty. «Bordon aveva il controllo totale sul gruppo. Secondo me ipnotizzava le ragazze. Vivevano con lui, ma nessuna ha mai visto o sentito niente. Non hanno mai sospettato che ci fosse sotto qualcosa di losco.»

«Mi sembra di continuare a girare in tondo. Eppure ci deve essere il modo di spezzare il circolo, di entrarci. E noi ci riusciremo» disse Jake.

 

Tutti in classe applaudirono. Ashley posò subito la matita e li imitò. La lezione era finita. Stava per uscire con gli altri, poi si ricordò che voleva chiedere al sergente Brennan se aveva qualche informazione sull'incidente di Stuart. Raccolse in fretta i disegni e li gettò nel cestino, quindi raggiunse Murray e Brennan, che parlavano fra loro. Smisero quando la videro avvicinarsi.

«Salve. Montague, vero?» disse il capitano Murray.

«Sì, signore.»

«Ormai siete a metà strada. Sempre contenta di essere all'accademia?»

«Oh, sì, molto.»

«Bene, mi fa piacere. Il sergente Brennan dice che questa è una delle classi migliori che abbia mai avuto.»

«Grazie, anche a nome dei miei compagni.»

«Ha qualche domanda sulla lezione di oggi?» chiese Brennan.

«In realtà vorrei parlarle di un incidente accaduto qualche giorno fa. Sulla I-95. Guidavo in direzione nord con alcune amiche e sono passata di lì quando era appena successo. Al ritorno, ho scoperto che l'uomo investito era un mio amico. I giornali dicono che fosse drogato, eroina. Ma non è possibile. Vorrei parlare con chi si occupa delle indagini e forse lei può indirizzarmi alla persona giusta. Magari sarà disponibile a scambiare due parole con me.»

I due uomini l'ascoltarono in silenzio. Alla fine fu Murray a rispondere.

«Sì, ho sentito di quell'incidente. Se ne è occupata la squadra di Miami-Dade. Vedrò di scoprire chi è a capo dell'inchiesta. Chiunque sia, sono sicuro che non avrà problemi a parlare con lei. Faccio un paio di telefonate, poi farò sapere al sergente Brennan.»

«La ringrazio molto, signore» mormorò Ashley.

«Non c'è di che.»

Ashley sorrise e uscì dall'aula. Capì che i due uomini la stavano ancora guardando. Forse la sua domanda li aveva stupiti. O forse era perché era entrata in classe per ultima. Oppure si erano accorti che disegnava durante la lezione.

Fantastico. Aveva ustionato e offeso un detective della omicidi, si era guadagnata la fama di ritardataria ed era stata beccata a scarabocchiare di nascosto come un ragazzino.

Fuori dall'edificio c'erano parecchie persone. Era la fine del turno di giorno e i poliziotti stavano tornando a casa. Mentre raggiungeva l'auto, Ashley ne salutò qualcuno che conosceva di vista e sorrise alla signora che lavorava in archivio.

Fu a quel punto che lo vide. Adesso sapeva chi era.

Il detective Jake Dilessio.

Parlava con un collega mentre attraversavano il parcheggio. Ashley accelerò il passo per arrivare il più in fretta possibile alla macchina. Ma prima che avesse il tempo di aprire la portiera, il detective si voltò. Sembrava diverso in abiti da lavoro. Più alto. Più vecchio. Più ufficiale. Più pericoloso per lei. Scacciò quel pensiero.

Forse non l'aveva notata. Il parcheggio era pieno di gente e di solito i poliziotti non prestavano molta attenzione agli allievi.

Dilessio aveva gli occhiali da sole, un ciuffo di capelli scuri gli era sceso sulla fronte. Guardava verso di lei, ma non fece alcun cenno di saluto. Non l'aveva vista.

Mentre si sedeva dietro il volante, però, Ashley si accorse che lui stava ancora guardando nella sua direzione. L'aveva vista.

E non si era certo degnato di accennare un saluto o un sorriso di circostanza.

Guardava e basta.

Ashley avrebbe voluto nascondersi sotto il sedile. Infilò gli occhiali da sole, agganciò la cintura, mise in moto e uscì dal posteggio.

Entrò in casa dall'ingresso privato e capì dalle voci e dalle risate che al bar c'era parecchia gente. Andò in camera sua, si tolse la divisa, si fiondò sotto la doccia e rimase a lungo a godersi il getto dell'acqua calda sul corpo. Avrebbe desiderato riuscire a smettere di pensare a Stuart Fresia, ma era impossibile. Forse si sentiva in colpa per non aver mantenuto i contatti con i vecchi amici. O forse era perché quello che aveva letto su di lui era inaccettabile e non riusciva a toglierselo dalla testa.

La doccia l'aveva rigenerata, ma sentiva ancora i postumi delle notti insonni del fine settimana. Entrò nel ristorante. Nick era al bancone. Il locale era pieno, cosa insolita per un lunedì sera.

«Ciao, piccola» la salutò Nick. «Sei stanca morta o puoi aiutarmi per qualche minuto? Katie è malata e David è da solo in sala. L'ordinazione per il tavolo ventiquattro è pronta. La porti tu?»

«Certo.»

Prese il piatto, salmone arrosto con patate al forno e cavoli, lo posò sul vassoio, vi aggiunse qualche spicchio di limone e una coppetta di salsa tartara e uscì nel portico, dove si trovavano i tavoli dal diciotto al ventisei.

Il ventiquattro era un tavolo da due proprio dietro l'angolo, che spesso veniva scelto dalle coppiette romantiche. Quella sera c'era una sola persona. Un uomo, con i capelli scuri. Era a testa bassa, concentrato su quello che stava leggendo.

«Buonasera. Ecco il suo salmone arrosto. Posso portarle qualcos'altro?»

Lui alzò la testa e lei per un attimo si paralizzò. Il detective Dilessio.

Si era cambiato e adesso indossava una maglietta e un paio di calzoncini. Aveva i capelli bagnati. Forse aveva fatto una nuotata oppure era appena uscito dalla doccia, proprio come lei. Ma non aveva smesso di lavorare, o almeno così sembrava. Leggeva con attenzione i documenti in una cartellina.

La riconobbe e la squadrò da capo a piedi. Dai capelli rossi ai sandali.

«Qualcos'altro?» mormorò il detective. «Be', almeno il salmone è sano e salvo sul tavolo. Posso osare chiedere un caffè? Non da indossare però, da bere.»

Ashley arrossì appena. «Vedrò di fare del mio meglio per riuscire a posargliene una tazza sul tavolo.»

La stava ancora guardando. Non sembrava arrabbiato, ma divertito.

Ashley esitò. «Lei è Jake Dilessio, giusto? Il detective Dilessio della Miami-Dade?»

«Sì. Perché, adesso che sa chi sono ha deciso di chiedermi scusa?»

Sentì che la rabbia le saliva in gola, ma riuscì a controllarsi. «Perché so chi è? Mi hanno insegnato che il nostro ruolo è proteggere e servire, non intimidire o aspettarsi un trattamento di favore. In realtà volevo solo presentarmi. Ma se lei invece era pronto a scusarsi per avermi investita davanti alla porta di casa mia, sarò molto lieta di ascoltarla.»

«Ah, già. Frequenta l'accademia, giusto?»

«Sì. Mi sta suggerendo di lasciar perdere?»

«No di certo. E se con questo alludeva al fatto che potrei darmi da fare per cacciarla dopo l'incidente dell'altra mattina, si sbaglia di grosso. Per un semplice motivo: se è brava, il suo futuro è già scritto e non c'è niente che io possa fare per cambiarlo. Però vorrei farle presente, visto che lo ha appena citato, che il nostro motto è proteggere e servire. Non aggredire le persone. Spero che si comporterà in modo più calmo e civile con i cittadini rispettosi della legge.»

«Cercherò. Ma non mi hanno ancora mandata di pattuglia.»

«Bene. Allora, c'è tempo. E speranza.» Spremette il limone sul piatto. «È la nipote di Nick, vero?»

«Sì, ma non cambia le cose, non mi aspetto favori per questo.»